A scuola di scrittura: oltre i luoghi comuni [ep. 2] con Alfio Squillaci

Quando ho chiesto ad Alfio Squillaci di presentarsi per questa seconda intervista della serie che ho denominato #KillyourDarlings – contro i luoghi comuni sulla scrittura -, lui ha sostenuto di essere “un lettore comune”, niente più di un funzionario pubblico in pensione “e lettore di lunga data”. In realtà per lungo tempo, già dai primi anni Duemila, ha curato e diretto la rivista online La Frusta Letteraria e come si legge sul sito di Gog Edizioni, che ne ha pubblicato il phamplet Chiudiamo le scuole di scrittura creativa!, Alfio Squillaci ha collaborato a importanti pagine culturali, tra cui quelle di Avvenimenti, Il Riformista, Linkiesta, Lettera 43, Gli Stati Generali.

E’ proprio grazie a Gog Edizioni e alla loro newsletter Preferirei di no (dalla quale ormai sono dipendente) che ho scoperto questa sorta di manifesto contro le scuole di scrittura creativa, perché la letteratura non è una catena di montaggio; il sottotitolo mi è giunto quasi come una risposta dall’alto mentre assistevo al tamtam che si stava generando intorno a un altro manuale scrittura di grande successo perché, forse al contrario del nostro, promette di smontare la mistica del talento.

Ora io non lo so dove sta la verità, se il talento si può insegnare o se per scrivere bisogna possedere il sacro fuoco, entrambe le posizioni mi sembra di averle sentite così spesso da suonare appunto come quei cliché che qui vogliamo smontare. Di una cosa sola sono certa: per portare avanti questa operazione c’è bisogno di chi tra quegli ingranaggi vuole metterci un paletto, anche solo per vedere come veramente sono fatti. Proprio come ci dirà Alfio Squiallaci.

copertina libro Alfio Squillaci

Ti va di spiegare innanzitutto chi sei, che ruolo hanno i libri nella tua vita e nel tuo lavoro?

Siciliano di Catania, nato in una famiglia abbastanza malestante, mi sono trasferito a Milano a 23 anni in seguito alla vincita di un concorso pubblico senza raccomandazioni. Prima di un sostentamento stabile, un lavoro e una strada tutta mia nel ventre della metropoli milanese, non avevo che la lettura dei romanzi come genere di conforto estetico privilegiato. E nei romanzi cercavo inconsciamente le trame della mia vita. Cercavo le “mie” narrazioni senza saperlo. La parabola narrativa degli autori che immensamente ho amato e che mi hanno sostenuto con la musichetta delle loro oppiacee narrazioni — e cioè Stendhal, Balzac, Flaubert, Zola, Maupassant — descrive spesso l’avventura di un giovane provinciale che abborda la metropoli (Parigi) e sostiene il suo sguardo meduseo, sfidandola, non avendo come unico capitale che la propria sfrontata giovinezza, il proprio talento (poco se mi considero, molto se mi comparo) e una stella non sempre benevola.

Sono solito ripetere che ho amato il romanzo perché il romanzo ha “amato” me. Non ho perciò un rapporto che emotivo e/o formativo coi libri. Col tempo ho affinato letture “tecniche” di narratologia — dai formalisti russi agli strutturalisti francesi ai narratologi anglosassoni — affascinato dal romanzo e dalla narrazione in genere, come congegno intendo dire, e insomma ho cominciato a studiare come funziona il meccanismo narrativo.

Questa intervista ha lo scopo di sfatare o, al contrario, confermare alcune delle credenze più diffuse sul mestiere di scrivere. Ad esempio: “scrivi di quello che conosci”. Sei d’accordo, bisognerebbe scrivere solo di quello che si conosce?

È la domanda che si pone chiunque abbordi la fiction che spesso è autofiction diretta o dissimulata, da Rousseau delle “Confessioni” all’ammiraglio in pensione a Luigi Pirandello: devo o non devo raccontarmi mentre racconto? E come?

Sono diverse le strade desumibili da una corposa tradizione: ciò avviene in genere deponendosi, esponendosi, interponendosi, trasponendosi in uno o più personaggi del racconto, attingendo dalla propria storia personale o da quella d’altri di cui abbiamo avuto conoscenza. O viceversa, parlando d’altri mentre parlo di me, ossia allargando l’orizzonte sul mondo a partire dal mio angolo visuale. La letteratura occidentale ha elaborato tutte queste esigenze del soggetto narrante in tantissime modalità narrative (affrontate dallo specialista Philippe Lejeune, autore del saggio capitale Il patto autobiografico).

Ora, accanto a questo tipo di narrativa direttamente autobiografica o indirettamente biografica, c’è quella altrettanto robusta del romanzo di documentazione. Basta fare un solo nome: Émile Zola e i suoi romanzi oggettivi come “Il denaro” o “Germinale”. Se vuoi scrivere un romanzo sugli affari e la Borsa o le miniere e non sei né un trader né un minatore non hai altra scelta che un duro lavoro di documentazione davanti a te.

Al secondo posto, tra le espressioni più ricorrenti c’è sicuramente “Kill your darlings”. Non so bene come tradurlo e se ci sia un corrispondente in italiano, vuoi spiegarcelo tu?

Se intendi con quella formula di uccidere, nella finzione narrativa, ciò che ti è più caro, beh parliamone. In generale io detesto le formule apodittiche che intendano porre assiomi, norme, canoni stringenti e vincolanti. E questo sia nell’affermare che nel negare i precetti narratologici. Eppure nella scrittura entrano in gioco — insopprimibili — ciò che un critico francese, Charles Mauron, chiama le metafore ossessive, ossia ciò che hai in petto di insopprimibile e che ti porta a scrivere. Oltre questa che dici tu c’è quella terribile dello Show don’t tell, ossia la formula-ingiunzione molto in voga nelle scuole di scrittura creativa secondo le quali dovresti limitare il più possibile la voce narrante e presentare i personaggi come se fossero autonarrantesi.

“Show don’t Tell”: cos’è davvero e come si applica la regola mentre si scrive un libro

Peccato che il risultato di questa ingiunzione sia spesso — penso a “Schegge” di Bret E. Ellis — una serie di scene dialogate e che, come avvertiva Flaubert in un suo suggerimento a uno scrittore che gli aveva sottoposto un manoscritto, l’eccesso di dialoghi soffochi il filo dell’azione narrativa non facendo comprendere ciò che è da porre in primo piano, mancando ossia di regia, di sapienza di conduzione del racconto. Vuoi sviluppare solo il dialogato? C’è il teatro per quello, no?

Ora, occorre ribadirlo, il romanzo è nato libero, anzi lawless come dicono gli anglosassoni. E quindi sicuramente potrebbe eludere anche questa indicazione che non è mia, ma di Flaubert. Vedi infatti i romanzi di Ivy Compton-Burnett fittissimi di dialoghi riuscitissimi. Perché il diavolo dei romanzi, accidenti, fa le pentole e non i coperchi!

Segue la nota “per scrivere bene, bisogna leggere tanto”. Luogo comune o regola che sarebbe bene marchiarsi a fuoco?

Mi sembra ovvio invece: leggere, leggere, leggere. Apprendere i ritmi, le musiche narrative, i volteggi e i voltaggi stilistici. Sai com’è: l’Iliade e l’Odissea sono stati già scritti, non puoi pensare di venire tu e all’oscuro di ogni tradizione fare il tuo peperepè originale.

Addirittura c’è anche un modo di giocare con gli stilemi, gli schemi, gli archetipi e anche i luoghi comuni narrativi. Suggerisco di leggere il libro di Jonatham Lethem Estasi dell’influenza il quale contro Harold Bloom, che imponeva l’originalità dei plot ne mette assieme uno, senza rivelare le fonti, tutto giocato sulle influenze appunto, mostrando invece che il letterato manierista può farsi beffe dell’ingiunzione dell’originalità. Se si legge sotto questo angolo visuale anche l’Ulisse di Joyce è un intarsio di citazioni, archetipi, cliché di un letterato consumatissimo. Gustav R. Hoke non a caso tratta Joyce nel suo saggio sul manierismo.

Chiariti i fondamentali, passiamo a quelli che tra gli esordienti sono gli argomenti più dibattuti: “È più importante avere una buona idea o scrivere bene?”, e ancora “si scrive per se stessi o per il pubblico?”.

Vige la legge del budino. Se sta in piedi fa legge. È indubbio che la buona idea se funziona risparmia le preoccupazioni stilistiche. Se si legge Dostoevskij si scoprirà che è una scrittura la sua caotica, disordinata, un fiume in piena e tanto stilisticamente sgraziata, ma che scrittura! Mentre di contro c’è quella scrittura tutta perfettina e a modino eppure esangue. Zola nel suo “Il romanzo sperimentale” dice che la scrittura è una sezione della realtà attraversata da un temperamento, una personalità. Alla fine è questa che deve emergere: la personalità. E ciò che alla fine fa di Dostoevskij Dostoevskij e di Flaubert Flaubert.

Quanto a scrivere per se stessi o per il pubblico. Orbene si scrive perché si ha dentro, come dice il poeta, quello spirto guerrier che dentro mi rugge. Il mio parere circa il pubblico implicito (c’è sempre un pubblico implicito, alto, medio, basso che sia nella tua scrittura) è di tenerlo comunque d’occhio. Stendhal nel suo “Henry Broulard” tracciava due strade, la prima la strada della follia e l’altra la strada di farsi leggere, spesso sono due strade che non si incontrano: quella solipsistica di chi se la canta e se la suona e quella di chi non ha che orecchio per le risonanze del pubblico. Sono due estremi. Io, che propenderei di massima a una scrittura “di proposta” qualora dovessi mai scrivere di narrativa (ma non credo), proporrei un modo di dire siciliano: Friggere il pesce e guardare il gatto, che non se lo mangi. Contemperare le due esigenze, perché il gatto vorace del pubblico potrebbe mangiarsi la migliore intenzione e soprattutto, quando è sazio, ti abbandona e va per i fatti suoi.

Infine, non basta essere narratori, occorre essere scrittori e letterati. Non solo raccontare una storia, ma avere qualcosa da dire (scrittore), e anche sapere come questo qualcosa si dice o è stato detto in passato (letterato). Ossia sapere i fondamentali della vita: sesso, denaro, vita relazionale (dove c’è dentro sia la carriera come sviluppo dell’Io, come anche il riflesso del mondo nell’Io e dell’Io nel mondo). Il romanziere è come la divinatrice dei tarocchi o il mago di Tindari, risponde a queste aspettative basiche, umane troppo umane, di quella canaglia che è il lettore.

tarocchi in letteratura
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Certo, il bravo narratore deve saper giocare sulla travolgente unicità dei personaggi (siano tipizzati o meno come le figure dei tarocchi) e sulla combinazione dei fatti che li riguardano: la storia… Eh sì la storia, esclamava E. M. Forster in Aspetti del romanzo, come elemento ineludibile ma non l’unico e il solo delle narrative. La “storia” non può essere il fine della narrazione, piuttosto un mezzo per rivelare un mondo (finzionale) che non sempre coincide con il mondo (reale).

Infine, detto tra di noi, servono o no queste scuole di scrittura?

Nel mio pamphlet, al di là del titolo aggressivo, io distinguo due ambiti di scrittura:

a) quella industriale (serie TV e cinematografiche, gialli, narrativa di consumo, ecc.) ove una serie di suggerimenti tecnici non sono da scartare pregiudizialmente e possono fungere da scorciatoia per il proprio obiettivo;

b) una letteratura di ricerca o di proposta (tipo “L’educazione sentimentale” o “Il male oscuro” o “La coscienza di Zeno”, opere per le quali le scuole di scrittura creativa potrebbero invece essere di intralcio o addirittura dannose. Per il semplice fatto che in questo secondo ambito la “storia” è meramente un pretesto ed è quasi assente come plot forte, dove manuali tipo “Il viaggio dell’eroe” di C. Vogler farebbero ridere o sarebbero di intralcio.

Poi si può discutere su tutto, restando avvertiti che un conto è sapere le mosse del tango, un conto saperlo ballare. La scrittura resta avventura, alea, stati di grazia, improvvisazione (ma devi sapere di musica), ispirazione e traspirazione, rischioso momento creativo dove, come scriveva Flaubert nella sua “Corrispondenza”, l’io redigente è contemporaneamente il deserto, il viaggiatore e il cammello.

Buon viaggio.

Vero o Falso? Oltre i luoghi comuni sulla scrittura [ep.1] con Yasmina Pani

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