Per concludere questo ciclo di incontri del Laboratorio Kai Zen, abbiamo chiesto al collettivo di lasciarci con un elenco dettagliato di libri indispensabili da leggere per chi vuole avvicinarsi alla scrittura collettiva.
Non ci sembra ci sia molto in circolazione, forse solo delle tesi di laurea sui singoli casi come Wu Ming, Kai Zen o Scrittura Industriale Collettiva. Non esistono manuali o sussidiari della scrittura collettiva, si tratta di trovare l’equilibrio di gruppo e capire quale modalità è la più vicina a ciò che si vuole produrre. Semmai potrebbe essere interessante osservare i libri dei vari collettivi (tra cui Paolo Agaraff e i progetti di romanzo totale) cercando di cogliere meccanismi, idioletti e modalità.
Alcuni di noi Kai Zen hanno fatto interventi pubblici sul tema della scrittura a più mani. Per esempio, sempre Guglielmo Pispisa al convegno MOD nel suo intervento intitolato “Scrittura collettiva e superamento del narcisismo autoriale: un fenomeno in crescita”, spiega:Il fenomeno ha acquisito peso e credibilità editoriale soprattutto con la pubblicazione per Einaudi del romanzo Q del collettivo Luther Blissett. Dal medesimo gruppo, rinominatosi dal 2000 Wu Ming, sono venuti altri romanzi e saggi letterari come il recente New Italian Epic “Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro” che ha destato un dibattito molto animato e in taluni casi aspro. Wu Ming è l’autore collettivo più noto e influente del panorama culturale italiano e internazionale, quello che per coerenza di pensiero e d’azione, per qualità di scrittura e per successo di pubblico ha portato alla ribalta mediatica il fenomeno contribuendo a imporlo all’attenzione della grande editoria.
Nell’esaminare il fenomeno della scrittura collettiva e la sua montante visibilità, però, ritengo sia utile partire da due opere episodiche e malriuscite, che ricevettero una notevole attenzione dai media ma non raggiunsero numeri di vendita importanti, e cioè “2005 dopo Cristo” di Babette Factory e “Il mio nome è nessuno“, Global Novel, di autori vari riuniti per l’occasione (nemmeno individuati da un’unica sigla o nom de plume).
In questi due esempi alcuni autori individuali, quattro nel primo caso (Nicola Lagioia, Francesco Longo, Francesco Pacifico, Christian Raimo) e quattordici nel secondo (Niccolò Ammaniti, Michel Faber, Antonio Skármeta, Juan Manuel de Prada, Aris Fioretos, Alèxandros Assonitis, Lena Divani, Feride Cicekoglu, Yasmina Khadra, Pavel Kohout, Arthur Japin, Ingo Schulze, Etgar Keret, Ghiorgos Skourtis), collaborarono a un progetto comune per una sola volta. Dopo la stampa delle opere realizzate, e forse anche per il limitato riscontro di pubblico, quelle esperienze non ebbero seguito, a testimonianza della loro occasionalità. In entrambi i casi, probabilmente, gli autori non avevano mai davvero abbandonato, o quantomeno messo da parte in via temporanea, il loro abito di scrittori individuali.
Più interessante, su una simile linea metodologica leggera, allora, è senza dubbio un altro romanzo collettivo ripubblicato sempre nel 2005, a riprova dell’attenzione dedicata in quell’anno alla scrittura collettiva, ma scritto e dato alle stampe per la prima volta nel 1929: “Lo zar non è morto” del Gruppo Letterario dei Dieci, composto da Filippo Tommaso Marinetti, Massimo Bontempelli, Antonio Beltramelli, Lucio D’Ambra, Alessandro De Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Viola, Luciano Zuccoli. La ristampa fu un’operazione editoriale condotta dallo scrittore Giulio Mozzi, che, fin dalla sua prefazione al romanzo, si premura di sottolinearne il carattere di puro intrattenimento, di sarabanda narrativa in salsa fascista la cui forza risiede nella grande capacità affabulatoria della trama, in barba a quanto solitamente più apprezzato da critici e accademie. Uno sberleffo palese alla cosiddetta letteratura alta.
I casi in cui la scrittura collettiva viene interpretata come sperimentazione compositiva fine a se stessa si esauriscono in breve. Anche perché, come dimostra pure l’esempio del Gruppo dei Dieci, non si tratta di percorsi del tutto nuovi e originali, ma di riletture di metodologie già esperite in passato. Quando la scrittura collettiva è solo un vezzo o un gioco di società, esaurita la spinta ludica iniziale, il fenomeno è destinato a spegnersi in fretta, perché non è considerato, nemmeno dai suoi stessi interpreti, come una reale occasione di crescita intellettuale e artistica.
[ad]
Vista l’ampiezza della libreria, la seconda ed ultima parte dell’intervento dei Kai Zen su StoriaContinua.com, la trovate qui.
3 risposte
Grazie del contributo, Giulio. Sarebbe davvero interessante poter raccontare su Storia Continua l’esperienza di Carlo Dalcielo. Che ne dice?
Be’, io inviterei – per narcisismo autoriale, naturalmente – a considerare l’esperienza di Carlo Dalcielo. Un artista che fisicamente non esiste, la cui vita e le cui opere sono curate da due persone fisicamente esitenti (il sottoscritto e Carlo Lorini), e che peraltro realizza le proprie opere grazie al contributo di altri artisti. Vedi:
http://ilpittoreeilpesce.wordpress.com
http://annunciazione.wordpress.com
Vi sono poi i casi di autori collettivi che non si dichiarano come tali. Ma questa è un’altra storia.
giulio mozzi