Di solito mi tengo ben lontana dai libri di moda del momento, ma c’era un che di evocativo nel titolo del romanzo d’esordio della giornalista Paula Hawkins; qualcosa che mi riguardava da vicino, poiché anch’io per molto tempo sono stata quella ragazza…
Così, eccezionalmente, mi ritrovo a leggere un thriller che non tradisce le aspettative create dal passaparola che da due anni, ormai, tiene “La ragazza del treno” in cima alle classifiche di vendita.
“Un capolavoro di suspense”, che ha tenuto Stephen King sveglio tutta la notte. “Un intreccio da dieci e lode e una lettura compulsiva”, riportano le recensioni in quarta di copertina. E infatti, violando tutti quei miei piccoli rituali di lettura, che mi consentono di restare in compagnia dei personaggi di una storia per settimane, mesi a volte, finisco il libro in un solo giorno. La narrazione scorre veloce, ma le riflessioni che cerca di instillare nel lettore non sono di altrettanta leggerezza: ciò che crediamo di vivere e vedere è effettivamente la realtà dei fatti? Siamo condannati a relazionarci con gli altri come se fossimo costantemente separati da un finestrino, attraverso il quale ci osserviamo, ma che non ci permette di toccarci mai veramente?
Rachel, la protagonista del libro, vive un momento critico: l’alcolismo ha posto fine al suo matrimonio e alla sua carriera; non le rimane che continuare a viaggiare su quello stesso treno che un tempo la conduceva al suo ufficio. In realtà lei è ferma, ferma osservatrice delle vite degli altri, come quella di Jason e Jess.
(…) il treno di ferma proprio in quel punto, ho una visuale della mia casa preferita, quella al civico 15.
Non conosco i loro veri nomi, me li sono inventati. (…) Sono una bella coppia, ben assortita. E da quello che vedo, sono felici. Sono come eravamo noi, come me e Tom, cinque anni fa. Loro sono ciò che io ho perso. E tutto quello che voglio essere.
Questa coppia ideale (i veri nomi sono Megan e Scott) è soltanto un diversivo che Rachel utilizza per non guardare giusto a pochi metri di distanza, al 23 di Blenheim Road, dove l’amante del marito, Anna, ha preso il suo posto.
Ogni giorno mi impongo di non guardarla, e ogni giorno faccio l’esatto contrario. Non posso farne a meno, anche se non c’è niente da vedere, anche se mi fa stare male. Ricordo bene cosa ho provato quando mi sono accorta che al posto della tenda color crema della camera al piano superiore ce n’era una rosa, e come mi sono sentita quando ho visto Anna annaffiare le rose, vicino al cancello, con la maglietta tesa sulla pancetta prominente.
Le circostanze costringeranno Rachel a scendere finalmente dal suo treno per scoprire che dietro le perfette tende delle perfette villette a schiera, nei quieti sobborghi di Londra, si nascondono colpe ben peggiori di quelle di cui crede di essersi macchiata, a causa dei suoi vizi. Il resto è thriller da manuale, l’equivoco affidato ad una narrazione in prima persona. Solo che, ne “La ragazza del treno”, le voci narranti sono ben tre: Rachel, Megan e Anna, raccontano la storia ognuna dal proprio punto di vista, partendo da momenti distinti, che finiranno per incrociarsi lungo la trama con conseguenti colpi di scena. Ma il libro potrebbe essere tranquillamente letto seguendo, di volta in volta, la sequenza dei capitoli dedicati ad uno solo dei personaggi, senza perdere la tensione. In un ipertesto digitale l’effetto risalterebbe ancora di più agli occhi del lettore, grazie a singoli indici dedicati alle tre diverse versioni.
Non so quanto sia stato voluto, ma in effetti il libro sembra aver trovato la perfetta sintesi tra il linguaggio letterario e quello del Web, gli stessi capitoli brevi, scritti in forma di diario con tanto di date e riferimenti temporali (Mattina/Sera) richiamano molto la struttura di un blog, se non il gesto compulsivo di “aggiornare il proprio stato”.
Che sia la Hawkins l’autore che tanto si aspettava per legittimare la narrativa digitale? L’artigiano dell’ipertesto.