Per questa terza intervista a tema #Killyourdarlings, ospitiamo la fondatrice di Correzionebozze.it. Cecilia Nono è un faro per chiunque intenda intraprendere una carriera nell’ambito della redazione editoriale; lo è stata per me nel corso di questi dieci anni e più (ogni volta che venivo colta dai dubbi amletici del redattore, “maiuscola o minuscola?”), lo è ancora per le tante risorse utili e pratiche che continua a offrire senza mai perdere di vista, come leggeremo più avanti, le innovazioni del settore. Insomma, Cecilia non si tira indietro quando si tratta di dare consigli e anche per questa intervista si è resa subito disponibile, unica avvertenza: “personalmente – mi ha scritto – mi occupo poco di narrativa e tanto di saggistica e scolastica”. Una buona occasione per esplorare un genere poco trattato qui, nel Laboratorio, ma in cui credo troveremo comunque tanti cari da uccidere…
Per cominciare, Cecilia, ti va di raccontare come sei diventata una editor?
Devo fare una premessa: la parola “editor”, nel nostro mestiere, viene usata curiosamente per indicare due professionalità distinte: chi fa editing sul testo (ovvero chi si occupa di una revisione più profonda rispetto alla semplice correzione bozze) e chi fa l’editor in una casa editrice, ovvero aiuta a selezionare gli inediti, progettarli, dare loro forma e posizione all’interno del catalogo, ragionando anche sulla ricaduta economica di queste scelte. Io sono più vicina alla prima, ma mi capita di impersonare anche la seconda.
Ho cominciato vent’anni fa come correttrice di bozze (ed è una cosa che faccio tuttora, quando mi capita l’occasione, e che tuttora amo fare e insegnare); lavoravo in una piccola casa editrice di saggistica, che oggi non esiste più. Qualche anno più tardi mi sono messa in proprio e ho creato Correzionebozze, una squadra di freelance con diverse competenze. Con il passare del tempo, mentre accumulavo esperienza, ho notato che i clienti mi affidavano volentieri incarichi via via più complessi: correzioni un po’ complicate, poi revisioni stilistiche, poi il contatto diretto con gli autori. Da quella base ho intercettato opportunità più sfidanti: ho cominciato a fare lavori di editing profondo e ghostwriting, ma anche di vera e propria progettazione editoriale (in sostanza, inventarsi un libro da zero insieme all’autore). Il mio lavoro, quindi, è oggi molto vario; ci sono giorni in cui correggo refusi, altri in cui adatto una conferenza che deve trasformarsi in libro, altri in cui organizzo i tempi degli illustratori coinvolti in un progetto di scolastica. E altri in cui mi siedo davanti a un virtuale foglio bianco pensando: che argomenti dovrebbe trattare la prossima uscita della collana del mio cliente?
Come sai, questa intervista ha lo scopo di sfatare o, al contrario, confermare alcune delle credenze più diffuse sul mestiere di scrivere, quelle che si sentono ripetere spesso, ad esempio: “Scrivi di quello che conosci”. Tu sei d’accordo, bisognerebbe scrivere solo di quello che si conosce?
Occupandomi prevalentemente di saggistica, dovrei risponderti di sì: se scrivi un saggio su un dato argomento, ci si può aspettare che tu lo conosca bene. In verità questa è una semplificazione: a volte un autore scrive un testo su un tema di cui è esperto e trova un editore disposto a pubblicarlo, ma spesso succede anche l’inverso. Faccio un esempio: un editore che pubblica una collana di Storia antica ha deciso di dedicare un titolo, poniamo, alla Guerra del Peloponneso. Va alla ricerca di un autore o autrice che abbia le conoscenze, lo stile, il tempo (e il prezzo) compatibili con il progetto e gli affida il titolo. Questo autore o autrice sarà verosimilmente competente sulla storia antica, ma non sarà necessariamente un grande esperto di quell’argomento specifico: per svolgere l’incarico dovrà consultare le fonti più attendibili e aggiornate, documentarsi. Non potrà ottenere un buon risultato improvvisando o costruendo i contenuti sulla base di come si immagina che sia andata la faccenda. In questo caso la cosa importante non è, quindi, conoscere il tema, ma sapere come studiarlo in modo efficace.
Un buon romanziere fa la stessa cosa: se vuole ambientare il suo romanzo ai tempi della suddetta Guerra del Peloponneso, per prima cosa dovrà studiare tutto il possibile per creare un’ambientazione convincente, attribuire ai personaggi un sistema morale coerente con quello che si può presumere vigesse al tempo, calarli in abitudini, abiti, ruoli sociali credibili per quel periodo.
Tra le espressioni più ricorrenti c’è sicuramente “Kill your darlings”, che abbiamo eletto a titolo di questa serie, ma nell’ambito del tuo lavoro come va interpretata?
Mi prenderò la libertà di “stiracchiare” questo consiglio di scrittura (“uccidi i tuoi beniamini”, grossomodo) per adattarlo alla non fiction. Capita di affezionarsi talmente al proprio lavoro da non tollerare che l’editor lo “uccida”. L’intervento dell’editor è abbastanza imprescindibile ma può essere davvero invasivo in certi casi, anche quando il contenuto di partenza è ottimo: è necessario adattare l’originale alla “scatola” che dovrà contenerlo, ovvero le intenzioni progettuali, la linea editoriale, il formato e la foliazione (cioè il numero di pagine) previsti, le norme redazionali.
Funziona come per le canzoni: la versione unplugged suonata in una camera d’albergo forse è strepitosa, ma quella che finirà sul disco sarà, per forza di cose, molto differente. Serve “ucciderla” per farla nascere, anche se è un processo doloroso.
Segue la nota “per scrivere bene, bisogna leggere tanto”. Luogo comune o imperativo?
Scrivere è un mestiere e tutti i mestieri si apprendono, anche osservando i maestri (e persino i cattivi maestri). Imparare a scrivere non fiction implica imparare le tecniche per una comunicazione chiara, efficace, supportata da fonti e da apparati adeguati. Per riuscirci è naturalmente fondamentale leggere i lavori di altri autori: come organizzano il contenuto? Come arrivano da A a B, come dimostrano che C è vero e D probabilmente no? Come citano le fonti? Come presentano i dati? Questo non significa che si debba perdere la propria freschezza: anche nella saggistica e nella manualistica si può dimostrare un’identità stilistica ed espressiva molto personale, che però funziona bene se viene applicata sopra una struttura solida. Se vogliamo fare un esempio, ho appena finito di leggere (in traduzione) “Ascesa e caduta dei dinosauri” di Steve Brusatte: di certo ha una voce peculiare, riconoscibile, che a me è piaciuta moltissimo; allo stesso tempo mi permette di identificare la sua opera come attendibile e interessante perché somiglia ad altre cose, si colloca in un certo filone, si serve di una struttura consueta che mi aiuta a capire i contenuti, inserisce correttamente riferimenti e fonti. Leggere tanto non serve solo a imparare a scrivere in senso assoluto (ammesso che esista un assoluto in questo campo), ma anche a esercitarsi a considerare il pubblico ideale del proprio libro. Se voglio scrivere un manuale di orticoltura e spero che piaccia alle persone, e desidero che queste lo comprino (si tratta anche di questo, dopotutto), potrei provare a leggere i manuali di orticoltura che hanno venduto di più e capire meglio che cosa si aspetta il mio pubblico ideale. E decidere se quella direzione fa per me, se mi piace, se posso adattarla al mio stile e alle mie conoscenze.
Chiariti i fondamentali, passiamo agli argomenti più dibattuti tra gli esordienti: “è più importante avere una buona idea o scrivere bene?”, e ancora “si scrive per se stessi o per il pubblico?”.
Sono due domande molto diverse. La prima si concentra sul prodotto (perché un libro lo è, esattamente come un paio di scarpe o una torta in pasticceria). Avere sia buone idee sia una buona penna è naturalmente una bella fortuna. Ma non è per forza così che nasce un libro: a volte una buona penna incontra l’idea valida di qualcun altro, o viceversa l’idea è ottima ma il libro è praticamente da riscrivere, perché funzioni. Si può lavorare ed esercitarsi in entrambe le direzioni. E forse qui possiamo collegarci alla seconda domanda: che cosa desidero, come autore? Che cosa mi spinge, che obiettivi mi prefiggo e a che livello posso ragionevolmente arrivare con le mie forze? Quali compromessi considero accettabili?
Restiamo nella metafora della pasticceria: potrei dire che a me piace mettermi ai fornelli. Mi rilassa, mi soddisfa, mi appassiona cucinare torte. Mi piace prepararle e mangiarmele, e condividerle con gli amici più stretti. Potrei prenderle così come sono e chiedere a una pasticceria di lusso di venderle? No, perché non sono abbastanza buone, perché non ho rispettato i parametri igienici di una cucina professionale, perché gliele ho portate alle tre del pomeriggio, e via dicendo. Ma io voglio vendere torte in pasticceria? Voglio cioè passare molto tempo assaggiando torte dei migliori maître pâtissier, fare corsi di cucina e di somministrazione degli alimenti, voglio fare apprendistato, voglio essere rifiutata a tanti colloqui, voglio infine andare a lavorare in una pasticceria alzandomi ogni giorno alle 4, mi fa piacere che il fornitore degli ingredienti sia deciso dal titolare e che sulle mie torte ci sia ora il nome del negozio? Personalmente, no. Voglio continuare a fare torte nel mio forno, quando mi salta in mente, e mangiarmele al più con qualche amico. Faccio torte per me stessa.
Ma se la tua risposta invece è sì, e la tua torta è un libro, allora tu vuoi un pubblico e sei disposto a provarci seriamente.
Infine, detto tra di noi, gli editor commettono errori?
Credo proprio di sì, essendo umani… Tuttavia può essere difficile definire che cosa sia un errore, in un campo così soggettivo come la scrittura! In un certo senso, editor e autore devono innamorarsi l’uno dell’altro, e fidarsi vicendevolmente, consapevoli che le cose potrebbero smettere di funzionare, a un certo punto della storia.
Cosa ne pensi delle Intelligenze Artificiali, credi che saranno utili proprio per evitare gli errori del mestiere o le vedi più come una minaccia?
Io spero di non rischiare di essere smentita in modo drammatico, ma onestamente guardo all’uso dell’IA con ottimismo o, per lo meno, senza una avversione aprioristica. Naturalmente la questione è estremamente complicata e la mia risposta sarà quindi molto superficiale. Partirei col dire che tutto ciò che l’IA sa le è stato insegnato da noi.
Se riusciamo a insegnarle a svolgere al posto nostro compiti ripetitivi e noiosi, sotto la supervisione umana, direi che tutti possiamo concordare sui vantaggi: già oggi un’IA gratuita può uniformare una bibliografia in pochi secondi, ma anche aiutarci a restringere il campo per reperire delle informazioni di contesto. Può aiutare un autore a stendere la scaletta per un libro? Può aiutarlo a trovare le ripetizioni, o a controllare una data? Bene, tutto questo è un punto di partenza per scrivere un libro migliore. Può l’IA scrivere il libro al posto suo? Fondamentalmente sì, o potrà farlo a breve, ma a certe condizioni. Che cosa dobbiamo pensarne?
Su questo tema consiglio senz’altro la lettura di un recente esperimento: in Viaggio oltre l’ignoto (il Castoro, 2024) a un’autrice umana e a una combinazione di IA è stato chiesto di scrivere un racconto. Gli input di partenza erano identici. Nella riflessione sui risultati gli ideatori dell’iniziativa spiegano tutto molto meglio di me.
Quando si tratta di creatività la questione si fa ancora più intricata ed entrano in gioco le scelte che decidiamo di fare: ha senso delegare alla macchina attività artistiche che svolgiamo per diletto? Ha senso – al di là dell’esperimento di curiosità – farle scrivere una poesia? E ha senso far tradurre un paper scientifico? E farle redigere centinaia di articoletti per riempire un portale web? Io non mi sento di poter dire “sì” o “no” in modo assoluto e onnicomprensivo. Magari nel tempo l’IA renderà inutile produrre letteratura scadente, perché saprà fare di meglio, e lascerà spazio a quella di valore. Anche questa è un’ipotesi.
Infine: l’AI sostituirà i correttori di bozze e gli editor? Forse, in parte: di certo il nostro modo di lavorare cambierà, ma non è forse vero che è già cambiato moltissimo nel giro di vent’anni? Non è forse vero che utilizziamo strumenti automatici sempre più sofisticati, di cui semplicemente non ci rendiamo conto, perché ci siamo abituati più lentamente? Probabilmente qualcuno si ritroverà con meno lavoro, almeno all’inizio: è fisiologico e non voglio sottovalutarlo. Nel frattempo, però, troveremo tutti il modo di adattarci al cambiamento, imparando nuove tecniche e reinventando le nostre competenze.
Sapresti riconoscere un testo scritto dall’Intelligenza Artificiale? Te la senti di affrontare il nostro test e dirci come è andata?
Ho preso appena la sufficienza, e la cosa curiosa è che ho attribuito all’IA le citazioni dei libri che conoscevo meglio!>