Easter egg: un indizio di intesa tra autore e lettore

L'armaiolo del librogioco Lgswd

Chi segue più assiduamente il Laboratorio avrà forse notato nell’immagine di copertina il segno distinguibile dell’autore di Loot of Gatescrollwizard Dungeon, e infatti Kroy è tornato su queste pagine per chiudere, nel suo stile unico, il ciclo di post che abbiamo dedicato alle tecniche di scrittura dei librigioco. Per chi si fosse perse le puntate precedenti:
abbiamo esplorato le false piste, con Mauro Longo,
e la scrittura in seconda persona, con Fabrizio Venerandi.

Adesso chiudiamo, grazie a Kroy, con un approfondimento su un espediente narrativo tra i più curiosi perché, come ci spiegherà, non è necessario allo sviluppo della storia, non è lì per essere scoperto, ma proprio per questo è il segnale più forte della dedizione che un autore ha per il suo pubblico.

All’origine degli Easter egg

Letteralmente “uovo di Pasqua”, un Easter egg è un messaggio, un’immagine, un personaggio nascosto a prima vista, ma raggiungibile mediante una serie di comandi o attraverso una serie di passaggi, insoliti o non propriamente immediati, che premia la curiosità del lettore (o dell’utente in genere).

L’espressione ha origine in ambito informatico fin dai primi esempi di videogiochi o programmi: il codice utilizzato per la programmazione infatti ben si presta a nascondere messaggi o scherzi attivabili solo con determinati passaggi. Nello specifico, i primi easter egg nascevano con l’esigenza di celare un messaggio nel codice che l’autore, un po’ ingenuamente, pensava non sarebbe mai stato trovato: i primi casi noti sono il videogioco del 1977 “Videocart-4: Spitfire” (in cui inserendo un codice specifico appariva il nome dell’autore Michael K. Glass) oppure “Starship 1”, sempre del 1977, in cui una sequenza di azioni rivelava il messaggio “Hi Ron!” dell’autore Ron Milner o ancora “Adventure” del 1979 in cui avviene la stessa cosa (l’autore Warren Robinett celato da un easter egg).

Questi primi esempi si configurano come una sorta di firma segreta del programmatore che, pur non rappresentando un ostacolo al funzionamento del programma e non intaccandone la sicurezza (altrimenti poco cambierebbe da un contenuto malevolo come un virus, un trojan, uno spyware), vengono inseriti nel programma attirando i malumori della casa di sviluppo una volta scoperti. Col tempo poi la pratica è diventata di uso comune nella cultura informatica e videoludica; non solo tollerata dalle case produttrici ma spesso ben accetta o esplicitamente richiesta per rendere un prodotto più accattivante, grazie a una sorta di “caccia al tesoro”.

L’Easter egg nella narrazione

Chiusa la parentesi informatica, doverosa per chiarire l’origine del fenomeno, possiamo passare al tema vero e proprio: nella narrazione, cosa differenzia l’easter egg dalla comune citazione o dal cammeo? In comune con questi due elementi, l’easter egg ha la selezione di un pubblico nel pubblico: tutti e tre infatti strizzano l’occhio a chi è in grado di cogliere il riferimento, ma la citazione è un riferimento diretto a un’altra opera e il cammeo è una partecipazione di un personaggio molto noto all’interno di un tessuto narrativo a lui estraneo. Per tutti questi casi, chi coglie coglie, chi non coglie non coglie. L’easter egg necessita invece di uno sforzo in più per essere trovato: un percorso insolito o una serie di comandi inusuali nascondono il “messaggio” (o il personaggio o l’ambientazione), celando il contenuto ai più e rivelandosi solo ai lettori più smaliziati. Un indovinello, insomma.

Nella mia esperienza personale, ho sempre pensato che il confine tra un prodotto fatto con amore e uno fatto tanto per fare sia la presenza di dettagli accessori. Se un’opera offre dettagli non strettamente necessari, probabilmente significa che l’autore è andato oltre a ciò che è dovuto, oltre a ciò che è obbligatorio ai fini della storia. Un dettaglio di questo tipo rivela l’amore che c’è dietro la creazione di un’opera: “No, non era fondamentale. Sì, l’ho aggiunto.”

Locanda del librogioco Lgswd
C’erano Bud, Terence e Waldo…

L’easter egg è in questo senso forse la forma più alta di dettaglio accessorio, perché non solo non è essenziale per l’opera ma è anche destinato a essere ignorato o mai trovato. Una strizzata d’occhio, un ammiccamento complice riservato solo al pubblico più attento. Tempo che pragmaticamente un autore potrebbe destinare a contenuti più importanti e visibili a tutti. Tempo “speso male” ma che rivela dedizione, cura e voglia di dare qualcosa di più del minimo indispensabile.

Perché inserire un Easter egg in un racconto

Per gioco, soprattutto: perché creare è divertente e cercare una fetta più piccola, più attenta, più devota di pubblico è una grande pacchia. Un po’ come indossare una T-Shirt di un film o di una serie a fumetti e divertirsi a scambiare occhiate complici con chi coglie. E chi non coglie, peggio per lui.

Certo, nessun editore o produttore sarebbe entusiasta di spendere tempo e risorse in questa maniera per un proprio prodotto, ma come nei primi easter egg informatici di cui parlavamo sopra, la tentazione è troppo grande. Quel senso anarchico e piratesco di inserire cose non necessarie, alla faccia di pantalone che ci mette i soldi. Uno sguardo di intesa tra chi è prigioniero dentro (l’autore) e chi è prigioniero fuori (il lettore). Un messaggio che sembra gridare: “Wee, cumpaà!” inserito di sgamo nonostante i limiti di budget e di tempo. 

Una missiva di amore clandestino tra chi crea e chi consuma. Liberatoria, catartica, politica… Passando alle cose frivole: avete trovato l’easter egg contenuto in quest’articolo? 😉

Kroy
Lgswd.it | Gioca o perisci!

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