Valuto la parola “scrittore” in senso assai ampio; intendo dire che mi considero scrittore non solo quando scrivo romanzi, racconti e poesie, ma anche quando scrivo saggi, articoli, interviste, inchieste, note e corsivi. Sempre, quando scrive, uno scrittore è scrittore (al di là degli esiti).
Non poteva che rispondere così alla nostra richiesta di raccontare il suo esordio da scrittore, un professionista dell’esperienza di Andrea Di Consoli.
Giornalista, critico letterario, saggista, poeta, autore radiotelevisivo. Esordisce con il primo libro “Le due Napoli di Domenico Rea” nel 2002.
Sono trascorsi dieci anni, ora che ci penso, e di quel tempo ricordo, sollecitato dall’amicizia di Giuseppe Montesano – che non a caso firmò la prefazione al mio libretto – una costante riflessione sul realismo, sul ruolo della morale in letteratura, sulla dignità dei generi extraromanzeschi. Poi, l’anno dopo, uscì la raccolta di poesie “Discoteca”. Di quel libro febbrile e, secondo i miei gusti di adesso, un po’ troppo tumultuoso e magmatico e impreciso, ricordo le tante presentazioni appassionate nei paesi del sud. Ma quella fu – al di là del valore letterario di “Discoteca” – una straordinaria stagione di caos, di libertà e di continue scoperte storiche, umane, politiche, sociali. Una stagione personale, a ripensarci oggi, non immune da un ottuso e corporale vitalismo meridionalistico.
Ha mai pensato di pubblicare online o comunque in versione digitale le sue storie?
Non mi piace pubblicare online perché amo la carta: i libri, le riviste, i giornali. Il web, inoltre, a differenza della carta, non dà nessuna garanzia sulla durata, sulla sopravvivenza di quel che si scrive. La carta dunque, allo stato attuale, è ancora il supporto che garantisce agli scritti la maggiore possibilità di sopravvivenza nel tempo e nello spazio. Dopodiché mi fa piacere se qualcosa che scrivo viene anche riportato online, ma solo in seconda battuta. Aggiungo che il sottogenere letterario dei commenti anonimi sul web è una delle pagine più miserabili della storia della scrittura. Scoprire l’esercizio anonimo del livore, del disprezzo e della superficialità impressionistica è stato per me un vero shock. Rapidamente la critica democratica è diventata delazione.
Cosa ne pensa del self-publishing?
Non ho le idee chiare sull’argomento, ma in linea di massima non mi piace. Nel senso che io sono cresciuto con l’idea che uno scrittore dovesse – prima di pubblicare – essere vagliato da un mondo critico e letterario, magari facendosi le ossa sui giornali, sulle riviste, con le piccole case editrici di progetto. Insomma, sono cresciuto con l’idea che fosse importante essere valutati positivamente da altri scrittori e dai critici. E dunque mi domando: è cosa buona pubblicare un libro online senza far parte di un mondo letterario, senza essere stimati da nessuno, senza un direttore editoriale che ti dà dei consigli sui limiti (inevitabili, infiniti) di quel che hai scritto?
Credo di no. In tal modo, io penso, si avvelenano i pozzi. Se tutti sono scrittori, nessuno più lo è. Mi si dirà: questa è la democrazia 2.0, e i critici non hanno più il potere o lo strapotere di distinguere e discernere la qualità dalla non-qualità. Rispetto l’obiezione, ma non sono d’accordo. Dopodiché – essendo uomini in carne e ossa – i critici e gli editori hanno anche mille difetti che nessuno potrà mai negare.
Io stesso li ho tante volte criticati, né mi sottraggo all’autocritica dell’abitudine (solo italiana?) delle amicizie sincere (magari fondate sulla stima) foriere di eccessiva prossimità e di troppo scoperta benevolenza. Ma siamo proprio certi che l’amicizia faccia così tanto male alla letteratura? Il critico – non dimentichiamolo mai – non è Torquemada né la Sibilla Cumana, ma un lettore di professione, mediamente competente e supportato da esperienza. Chi fa da sé, perciò, mi sembra privo di umiltà.
Detto questo, concludo dicendo che magari sono ottenebrato da una vecchia logica novecentesca, e dunque faccio mea culpa per non aver scoperto, letto e valorizzato i capolavori pubblicati con il self-publishing. Lo dico non solo con ironia, ma con una sincera voglia di capire il confine dei miei limiti.